Il paradosso degli scavi: servirebbe un nuovo Editto del Cardinale Pacca per salvare l’omonima piazza? 

Un lettore ci invia le sue considerazioni in merito ai rinvenimenti archeologici di Piazza Cardinal Pacca e alle decisioni adottate dall’amministrazione comunale di Benevento.


Esiste da sempre un magmatico rapporto tra storia e modernità. Lo strabordante patrimonio artistico che, in occasione di ogni scavo, sovente emigra dai silenti paesi del sottosuolo fino alla nostra felice cittadina – probabilmente in cerca di compagnie più gradevoli di tenebre e roditori – ci costringe ad abbassare la testa per guardare il passato. Questa impercettibile inclinazione del capo, oltre a essere un atavico e inconscio riferimento alla sottomissione dei romani sotto le celeberrime forche, è anche un movimento cui i sanniti moderni sono tristemente ammaestrati e abilmente abituati. Vero è che per poter guardare tra il ruvido biancore delle transenne che delimitano l’area, chinare la testa è un’azione obbligata, ma anche evitando qualsiasi flessione,attraverso le feritoie create dal maltempo e da qualche curioso, è possibile intravedere, secoli di storia intersecarsi tra le piastrelle di mosaici dimenticati, tra il tufo, la polvere, le ossa. La violenza dell’asfalto ha soppresso le rovine di tempi remoti, che la terra gravida ha protetto e sottratto al divenire, ma che ora si dirigono verso una (nuova) morte in (una nuova, breve) vita. Cercando di scorgere al di là di questo purgatorio perpetuo che i reperti recentemente rinvenuti stanno scontando, sembrerebbe che l’unico destino capace di aleggiare su Piazza Cardinal Pacca sia la scure delle tenebre. La puntualità delle nuvole di questi ultimi pomeriggi è per gli scavi una minaccia meno impetuosa delle risoluzioni prese dall’amministrazione comunale. L’iniziale intenzione di costruire un terminal bus turistico in quella stessa zona zittisce la storia e le sue (anacronistiche) istanze, lasciando il posto alla principale prerogativa postmodernista: investimenti profittevoli in tempi rapidi. Ma ha davvero senso soffocare una possibile nuova – e ulteriore – tappa per il turismo, con un approdo per lo stesso? Quali interessi tocca il sotterrare un’area archeologica così feconda? Gli interessi dei cittadini? Dei turisti? Di chi? Di certo, disperdere per sempre quei tesori nelle gole del terreno non costituirebbe un arricchimento per i cittadini – privandoli di un ingente incremento del patrimonio artistico – né tantomeno per i visitatori, sicuramente indifferenti all’ubicazione di un terminal (o un infopoint) proprio in quella zona, ma certamente interessati a una meta aggiuntiva da visitare, magari prolungando il soggiorno. Allora, quindi, una simile risoluzione, per chi costituirebbe una ricchezza?

Gli interessi della storia sono incorruttibili, nascono dal connubio di questa con l’incedere del tempo che, seppur talvolta si dimostri un padre avaro e tiranno, talaltra concede, nella sua noncuranza, segni del suo transito: rari germogli di un desertico passaggio. Nel tentativo di amalgamare interessi terreni con quelli della storia – o meglio della “metastoria” – l’arido dibattito degli ultimi giorni ha soltanto vellicato i nodi più ostinati di questa spinosa questione. Sebbene una buona parte della cittadinanza, ancora assennata, abbia pervicacemente difeso la prosecuzione degli scavi, l’ultima risoluzione comunale ha perseguito comunque l’intento di tumulare una volta per tutte, questo nuovo passato che prova a emergere. La decisione dell’amministrazione ha probabilmente tradito la sottaciuta abitudine – dei suoi componenti – di interrare, anche nel privato, il lascito degli antichi. Se così non fosse, rimembrerebbe la celebre locuzione latina: “Nomen omen”, che letteralmente significa “un nome, un presagio” o “il destino nel nome”. Ove rammentasse tale saggezza, si avvicinerebbe alle questioni più spigolose, armata di due strumenti andati perduti: la ponderazione e la complessità; metodi da sempre recalcitrati nella gestione del nostro territorio. Si renderebbe così conto che forse quei rinvenimenti non sono altro che la realizzazione di un destino – o presagio – scritto nel nome del luogo in cui sono apparsi. La piazza infatti – meglio conosciuta nel gergo locale come “Piazza Santamaria” – è intitolata al Cardinale Bartolomeo Pacca. L’uomo, nato a Benevento, ricoprì la carica di Prosegretario dello Stato Vaticano. La storia ricorda la pervicace integrità con cui si oppose ai deliri di onnipotenza di Napoleone, venendo cosìesiliato. Il filo sottile che interconnette le fervide rovine da poco scoperte e il Cardinale che dà il nome alla piazza è però la “LexPacca” anche detta “Editto del Cardinale Pacca” che, emanata nel 1820, rappresenta il primo organico provvedimento legislativo di protezione del patrimonio storico-artistico, capace di assumere importanza anche al di là degli stati pontifici. Grazie all’intervento di Bartolomeo Pacca, furono salvaguardati i beni artistici e i resti archeologici, con una serie di disposizioni per la catalogazione e il restauro, al fine di evitarne la dispersione. Il destino del Cardinale era scritto nel suo nome, e nel suo nome è rimasto, resistendoanche al sonno eterno. L’incrociarsi di questo fato con quello del luogo che porta il suo nome fa indubbiamente rabbrividire e contestualmente aggiunge all’irrazionalità di una risoluzione infelice, anche i connotati tipici del paradosso. Se l’Editto fosse ancora in vigore, nessuno avrebbe il coraggio di contrastare il lascito di un uomo capace di tenere testa al Bonaparte, per di più con determinazioni grottesche e irrazionali. Un’inversione di marcia verso un fronte maggiormente interconnesso con lo spirito del luogo sarebbe certamente auspicabile, ma allo stato attuale appare soltanto un’elucubrazione velleitaria. Non ci resta quindi che trasognare constatando come la volontà di un grande uomo, oltre a essere capace di opporsi a una delle figure più importanti della storia, sopravviva intatta all’esilio e alla morte, aleggiando – seppur idealmente – con foga ultraterrena, su una decisione prosaica e densa di provincialismo. Per questo è fondamentale associare con il massimo vigore il nome del Cardinale ai reperti recentemente scoperti, rinfrescando così radici dimenticate al fine di proteggere la storia con la storia e confidando nell’antica saggezza. Un proverbio greco recita: “Una società prospera quando i membri anziani piantano alberi sapendo che non siederanno mai sotto la loro ombra”; sulla scia di questo antico detto, si può conclusivamente affermare che l’interruzione degli scavi oltre a essere poco lungimirante – precludendo altre importanti scoperte – dimostra ancora una volta come di questi ultimi anni, una volta digerito il “panem” e dimenticati i“circenses”, resterà soltanto un lugubre vuoto: l’ornamento più rappresentativo del decadimento verso cui la nostra cittadina è ormai diretta.

Raffaele Maria De Bellis

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