Andrà tutto bene

A mettere nero su bianco tutto l’insieme dei pensieri che mi affollano la testa ci ho provato già tante volte.
Senza nessun risultato apprezzabile.
Troppe emozioni, troppi pensieri.
Che una volta nero su bianco assomigliano ad una serie di banalità, anche melense. 
Provo allora stavolta a mettere giù qualcosa di almeno ordinato, senza alcuna altra pretesa che quella di “fermare”, a mio completo vantaggio, la ridda di impressioni che mi affollano la mente.
Vivo, da anni ormai, la condizione di espatriato.
Dopo anni passati in Francia, è da quasi tre che con la mia famiglia siamo nella inglesissima Oxford.
Ogni gioia e ogni tragedia che colpisce il mio paese o la mia città la vivo da lontano.
Con l’amarezza di non esserne parte quando si tratta di eventi lieti – mai stato appassionato di calcio, non so cosa avrei dato per vivere la prima, storica promozione del Benevento in serie A, per vedere dal vivo e non attraverso lo schermo di un telefono la gioia sul volto di quegli amici che allo stadio, da quando eravamo ragazzini, sono parte del panorama tanto quanto le gradinate della curva.
Con l’angoscia di chi a 35 anni suonati passati tra vicoli, piazze e quartieri di Benevento è diventato un espunto, di chi nelle tragedie altro non può fare che assistere da lontano, informarsi, scrivere qualche messaggio o tutt’al più qualche banalità sulle pagine di un giornale – è stato il caso dell’alluvione di qualche anno fa. 
Stavolta le cose sono diverse. Sono come non lo sono mai state. Sono come la mia generazione ed altre hanno solo sentito dal racconto di genitori, nonni o bisnonni. 
Stare più o meno vicini, stare lì invece che qui, cambierebbe poco o nulla.
La tragedia è nazionale, è mondiale.
I danni non sono solamente materiali o economici.
La tragedia non è nemmeno un evento, un episodio, qualcosa che come un’alluvione o un terremoto si presenta come l’incubo di una notte e lascia poi i sopravvissuti confrontarsi con i suoi strascichi, con la necessità di ritrovare al più presto un pizzico della normalità spazzata via. 
Il pericolo stavolta è un virus che non fa distinzioni, sconti o cortesie – se non quella insperata concessione di non essere generalmente interessato ai bambini.
Un virus che, con un viaggio esattamente opposto a quello intrapreso da Marco, Niccolò e Matteo Polo è partito dalla Cina per trovare, come paese di particolare predilezione, l’Italia.
Le ragioni che hanno esposto lo stivale prima e più di altri paesi europei agli effetti di questo contagio sono ancora tutt’altro che chiare. 
Eppure la sensazione che ci fosse chi, almeno in UK, apertamente o velatamente, potesse ritenere la cosa attinente meno all’agente patogeno che al popolo che si è scelto come ospite era palpabile già prima che un noto imbecille, Christian Jessen, presunto medico, improbabile protagonista della tv inglese con programmi di alto profilo culturale quali Corpi imbarazzantiSupermagri contro supergrassi – o il capolavoro Curatemi, sono gay – decidesse di condividere sul palcoscenico mondiale le sue illuminanti idee in merito alla natura degli italiani.
Pur vivendo, come dicevo sopra, assieme alla mia compagna di sempre, due figlie e un gatto in quella sorta di bolla privilegiata che è la città di Oxford – europeista a sufficienza, liberal-democratica quanto basta, addormentata alla noia, ricca in maniera sfacciata –, in una città dove quelle che chiamano “manners” (buone maniere inglesi) non lasciano spazio a domande dirette o argomenti sconvenienti, l’odore del pregiudizio è stato sin da subito più forte del profumo della vicinanza, della simpateticità, di qualsivoglia sentimento di solidarietà nei confronti del popolo italiano.
Gli inglesi hanno, nel mondo, un numero elevato di posti che amano, tra cui l’Italia, ma restano generalmente troppo inglesi per immergervisi ed assorbirne usi, costumi e cultura, per divenire, fino in fondo, altro da sé.
La loro storia li ha abituati a girare il mondo rimanendo sempre, invariabilmente, immancabilmente, inesorabilmente inglesi.
Tutto ciò che sta accadendo in Italia, l’alto numero di contagiati e di decessi, la zona rossa, le fughe verso sud, la chiusura dell’intero paese, le rivolte nelle carceri – tutto, come in un film, non poteva non percuotere l’immaginario di un popolo agli antipodi di quello italiano nel bene come nel male ed instillare quella domanda, quel dubbio che è stato, con ogni probabilità, parte essenziale della flemma, della lentezza, della insufficienza e del cinismo con il quale il governo inglese si è finora mosso di fronte al contagio: ma sarà colpa degli italiani più che del virus?
Se un paese che da tempo ha abbandonato il consesso dei grandi, che da decenni scala al contrario qualunque classifica, che da anni vive una recessione economica o una stagnazione (negli anni buoni), un paese nel quale ad uno sguardo superficiale la caoticità dell’insieme può apparire come il tratto maggiormente caratteristico si ritrova improvvisamente leader mondiale nel campo delle epidemie, contendendo il poco invidiabile primato al ben più grande paese dal quale il contagio ha avuto origine, ci sarà qualche ragione che va oltre la semplice virulenza di questo agente patogeno?
Sono in effetti non poche le cose che agli inglesi sfuggono.
E non tutte riguardano questioni scientifiche strettamente legate al virus – materia sulla quale pure non sembrano essere all’avanguardia stando alle decisioni prese dal governo su basi “scientifiche” incomprensibilmente agli antipodi di quelle del resto del mondo – e, al momento, ignote a qualunque osservatore che non sia parte integrante del governo Johnson.
Agli inglesi – all’inglese medio – sfugge, e non potrebbe del resto non sfuggire, quel meccanismo, quella scintilla, quel “qualcosa” che spinge gli italiani a non rimanere soli, chiusi in casa, per più di due giorni consecutivi, quella incoercibile voglia di vivere che è uno dei tratti più caratteristici di tutto ciò che accade ed è mai accaduto a sud delle Alpi. 
Quello stesso meccanismo, quella scintilla, quel “qualcosa” che se da una parte ha forse inizialmente dato al virus il vantaggio di trovare facilissimamente sulla propria strada corpi da infettare è d’altra parte alla base di quella commovente, unica, inimitabile resistenza che l’intero paese sta mettendo in scena dai propri balconi e dalle proprie finestre. 
Sfugge, agli inglesi, quel peculiare genius loci che, se da una parte ci impedisce di concorrere al premio per il popolo più avveduto e lungimirante del globo, ci ha d’altra parte reso pezzo imprescindibile della storia di ogni campo dello scibile umano e di ogni epoca.
Qui, dall’Inghilterra dove la risposta al Covid-19 è per ora suddivisa tra la fredda normalità della vita dei più – interrotta sola dallo shopping da panico che già da due settimane ha svuotato in maniera inusuale gli scaffali delle maggiori catene di supermercati – e la cinica strategia dell’immunità di gregge raggiunta attraverso il contagio di massa sostenuto da informazioni e cifre rese pubbliche col contagocce; qui, dal paese senza piazze e senza balconi – ma con un giardino recintato che protegge gli indigeni persino dalla seccatura di due chiacchiere con i vicini più prossimi – sfugge, e non può non sfuggire, quel commovente orgoglio che gli italiani hanno condensato in quella parola d’ordine, andràtuttobene, che li porterà a vedere al più presto la fine del tunnel.  
Qui, per chi inglese non è o ancora non lo è a sufficienza, l’angoscia comincia a lasciare il posto alla paura.
Sembra la frase del protagonista di uno di quei film catastrofisti che agli americani riescono così bene.
É invece la quotidianità degli italiani all’estero.
Non quelli che viaggiano. 
Quelli, credo siano ormai rientrati tutti o quasi.
La paura è un sentimento che comincia ad accompagnare il quotidiano dei milioni di italiani che all’estero ci vivono e che sanno di dover cominciare a considerare l’idea di passare attraverso una pandemia senza nemmeno il conforto di avere tutt’intorno la gioia, la fantasia, l’estro, la caparbietà, l’orgoglio di un popolo che tra tutti i suoi difetti lotta ogni giorno per non annoverare quello di chi al dolore degli altri sceglie di rapportarsi con freddo e pragmatico cinismo.
Italia, Benevento andrà tutto bene.
Massimo Iazzetti

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