Viviamo la Brexit, ci chiediamo dove va l’Italia. Considerazioni

Ma l’Italia dove sta andando?
La risposta a questa domanda sembra saperla chiunque.
Almeno a giudicare dal modo in cui, chiunque abbia palcoscenico e diritto di parola, istruisce l’interlocutore sull’argomento.
Eppure l’impressione, come per ogni argomento che tutti sembrano “masticare” – almeno stando a quanto ne dicono – è che nessuno ne sappia davvero un granché.
Discorsi se ne fanno tanti, per carità.
Ma quanti risultano davvero convincenti?
Coerenti, se non altro?
Organici, quantomeno.
Non è abitudine recente quella di occuparsi, lungo lo stivale, di politica (e di calcio).
Ovvero di tutt’altra materia rispetto ai propri studi, al proprio bagaglio culturale, alla propria principale attività.
Di politica interna e di politica estera, di politiche sociali e di politiche del lavoro, di macro e microeconomia.
Il possesso di un titolo accademico ha smesso, da tempo, di rappresentare un prerequisito necessario.
Il mancato conseguimento è oggi, anzi, addirittura rivendicato con orgoglio.
Premier col curriculum gonfiato, ministri col diploma o nessuna pregressa esperienza nell’ambito specifico del proprio dicastero, viceministri cooptati sulla base delle regole del nuovo Cencelli, sottosegretari pescati nello stagno delle amicizie, e giù fino a figure professionali come i navigator, assunti a termine, senza concorso, col compito di cercare ad altri il lavoro che non avevano fin qui trovato per se stessi.
Dalla testa alla coda, una generica infarinatura si direbbe l’atout più in voga per scalare posizioni nel nuovo corso della vita politica italiana.
Eppure è difficile non trovarsi concordi sull’osservazione che la realtà diventa via via più complicata, più sfaccettata, più difficilmente decifrabile che in passato; che le competenze necessarie a guidare determinati processi richiedono un retroterra più solido, un percorso formativo di maggiore consistenza, un continuo aggiornamento delle proprie capacità.
É esperienza comune, in qualunque ambito professionale o lavorativo – eccezion fatta per quello della politica – che le richieste in termini di preparazione, esperienza, perizia, si siano moltiplicate.
E che anche la sola accelerazione tecnologica acuisca spesso e volentieri l’esigenza, anche per quegli ambiti che erano tradizionalmente appannaggio di percorsi formativi poco o nulla consistenti, di una specializzazione mirata.
Esattamente all’opposto, proprio nel momento in cui la necessità di avere alla guida di un paese una classe politica in grado di elaborare strategie di medio e lungo termine parrebbe autoevidente, l’elettorato italiano sembra invece aver definitivamente accettato quel gioco al ribasso cui l’hanno costretta decenni di “preparatissimi disonesti”, di accademici eruditi del raggiro.
E preferire lo slogan al ragionamento, la battuta da avanspettacolo all’analisi, l’insulto alla pacata argomentazione.
I tweet hanno preso il posto dei decreti, le chat di gruppo quello dei consigli dei ministri.
Le storie di Instagram, i live di Facebook, i post sui social hanno sdoganato l’orgogliosa rivendicazione del pressapochismo, dell’errore grossolano, della gaffe epica. 
Ma, a dispetto di un consenso interno solido o in trascurabile flessione grazie a politiche come il reddito di cittadinanza e la cosiddetta “quota cento”, l’avvertibile impreparazione nell’arte della diplomazia – che non è certo l’equivalente, come qualche esponente del M5s vorrebbe far intendere, del politically correct – rischia solo di aggravare un isolamento geopolitico che, a torto o a ragione, sembra crescere di giorno in giorno.
La battaglia contro il franco cfa, giusto per rimanere ad un argomento della querelle con il vicino transalpino che pure potrebbe parere sensato, non solamente arriva con numerosi decenni di ritardo – cosa che in sé non costituisce certo il maggiore dei problemi della intera faccenda – quanto piuttosto attiene come i cavoli a merenda alla subalternità del continente africano rispetto al resto del mondo – essendone, ad oggi, come innumerevoli analisti indicano, l’imperialismo economico cinese e l’aggressività geopolitica statunitense i due maggiori moltiplicatori.
Un conto è lo scambio di “cortesie” tra due paesi, l’Italia e la Francia, da sempre impegnati a recitare il ruolo dei parenti serpenti a dispetto di due economie perfettamente integrate – a tutto vantaggio del vicino tedesco che, tra i due litiganti, trova agevolmente il modo di trarre beneficio –, un altro è la ricerca dello scontro frontale che non può far altro che nuocere, in vario modo, alla bilancia commerciale italiana.
E persino laddove un saggio ravvedimento ha fortunosamente preso il posto della sconsiderata spavalderia, l’inauspicabile confusione sulla vetustà della democrazia francese ha finito per dare un’altra botta alla credibilità del governo italiano in campo internazionale piuttosto che ricucire lo strappo.
Difficile poi, al momento, valutare appieno dove porterà l’atteggiamento assunto nei confronti del nuovo corso politico del Venezuela ma è certo che anche in questo caso politici più navigati avrebbero quantomeno ricercato una linea di maggior concerto con le altre diplomazie internazionali.
Tutta questa lunga disquisizione, lungi dall’avere la pretesa dell’analisi, meno che mai esaustiva, andrebbe piuttosto intesa come la preoccupata trasposizione delle considerazioni che nascono dal vissuto personale di un momento storico peculiare quale é quello della Brexit.
Qui dove tutto corre veloce senza mai dimenticare la tradizione, la sensazione di essere stati in qualche modo raggirati, cacciati in un vicolo cieco da politici impreparati, interessati e persino disonesti è palpabile.
Qui dove la classe politica, alla ricerca del facile e più largo consenso, ha lungamente soffiato su una data, più o meno aperta, insofferenza verso certo tipo di immigrazione, sulle ingerenze di Bruxelles e sulla conseguente perdita della tanto cara “sovranità” e sulle presunte o reali influenze comunitarie sull’andamento economico del paese, la caccia al passaporto irlandese – o, come i figli di qualche esponente dell’attuale governo, alla cittadinanza tedesca – sembrano avere negli ultimi mesi sostituito la più tradizionale caccia alla volpe.
Ed è significativo che tra i più accaniti cacciatori vi siano proprio convinti brexiters – politici, imprenditori, affaristi –, svelti, oggi, a lasciare una barca
che, nelle previsioni generali, sembra correre il serio rischio di affondare.
Difficile dire dove tanta boria, dilettantismo e, forse, un pizzico di cialtroneria di troppo potranno portare il regno di Elisabetta II.
Una certa psicosi, non si capisce bene quanto giustificata, comincia a farsi largo e più di qualcuno cerca di prepararsi facendo piccole scorte di medicinali e generi alimentari.
L’Italia, nel bene come nel male, non è il Regno Unito.
Ma, nel bene come nel male, sarebbe certo più rassicurante, per entrambi, se gli aventi diritto al voto cominciassero a riscoprire la necessità di una classe politica preparata, avveduta ed onesta, in grado di decifrare o quantomeno leggere il reale in tutta la sua complessità, e di argomentare le proprie elucubrazioni in ben più di 140 caratteri.
La necessità di una collegialità internazionale, di una politica estera che vede nel vicino l’interlocutore privilegiato, non il limite alla propria sovranità; in una ordinata immigrazione un’opportunità, non un problema ed un fattore di instabilità; in una accorta riduzione del debito pubblico e della spesa in deficit un’opportunità di ridurre il carico per le future generazioni, non un’immotivata imposizione comunitaria; nelle istituzioni sovranazionali un istituto da modificare, magari da rifondare, non una struttura da abbattere.
Per chi come noi, giovane famiglia, migranti economici per una parte, cervelli in fuga per l’altra, cresciuti ed educati in Italia, non trattenuti in patria da nessuna prospettiva credibile, non rappresentati da nessuna forza politica, per vari anni in Francia ed ora, a tempo (si spera) determinato, nel quasi extracomunitario Regno Unito, l’Europa è un qualcosa di tangibile, qualcosa di più concreto delle parole dei dioscuri italiani, qualcosa di più reale delle fantasie di chi, vada come vada, cadrà sempre all’impiedi.
Un privilegio ai cui piaceri, e doveri, rinunceremmo malvolentieri.
Massimo Iazzetti

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