Cattolici e Massoni nella politica del Sannio

Novella Atene o piccolo borgo?” è un interessante e complesso saggio storico-politico di Antonio Gisondi, che esplora e ridefinisce “cultura, politica e protagonisti del Sannio”. Si apre con una duplice dedica, l’una che attraversa la narrazione come un’ombra mai del tutto illuminata e pur sempre drammaticamente presente: “…ai circa 300.000 sanniti emigrati in 150 anni”, l’altra, “anche al piccolo Luka”, investendo una grande speranza su la generazione che ora si affaccia alle frontiere dell’oggi.
Non è semplice seguire i percorsi che cercano di penetrare nell’analisi della realtà storica  beneventana, dalla costruzione, con la regia di Cavour, della nuova provincia, nel 1860, alla “forma politica” che si evolve e si realizza in un secolo.

L’Autore richiama spesso la persistenza dei grandi miti secolari che hanno sempre delineato l’autorappresentazione storico-genetica dell’identità territoriale: “l’antico Sannio” che riemerge improvvisamente nel 1860 e la “enclave pontificia” che dalla sconfitta di Manfredi nel 1266, al 3 settembre 1860 ha costituito, per otto secoli, la condizione istituzionale e politica della città pontificia.
La ricerca mostra che sono compresenti nella rappresentazione della soggettività storico-politica del Sannio, al di là dei due miti, marchiati dalla retorica di segno positivo da una parte o negativo dall’altra, le storie concrete, vere, reali, sia della plurisecolare Civiltà del Sannio dell’epoca preromana, sia quella dell’appartenenza alla Stato pontificio che stanno insieme, nell’unica storia nostra. E questa è animata da un patrimonio vitale di linguaggi, di eventi, di valori, di vocazioni, di vissuti, di tracce, che non molte realtà provinciali possono vantare e che non può essere ridotto a un condizionamento di sofferenza e di limitazione per la maturazione completa della realtà civile. Le valenze costitutive del Samnium, nell’ampiezza formidabile della sua storia antica e medievale e della centralità di Benevento cattolica – non solo enclave pontificia – irradiante una potenza grandiosa di direzione ecclesiale e liturgica e di missione pastorale dal Molise al Gargano, a buona parte della Campania, e non solo con il mirabile episcopato ultraquarantennale del Cardinale Orsini, poi pontefice Benedetto XIII, fino al 1730.
E’ l’espropriazione, dopo il 1860, nel Sannio, delle proprietà della Chiesa a costituire il potere dell’ “ordine neoagrario” con la gestione “prussiana” delle campagne che determinerà dal 1860 al 1914, annota Gisondi, la vera rivoluzione: l’emigrazione di 157.000 persone e consoliderà l’impianto politico ed amministrativo della conservazione.
E’ la politica socio-economica della statualità indirizzata dalla Massoneria dei Savoia e gestita nell’apparato economico-amministrativo dai gruppi dominanti del nord a deprimere le risorse e le energie delle popolazioni del Mezzogiorno, a disperdere la forza di attrazione dell’unificazione giudicata e vissuta infine come “conquista del Sud”
E’ il fallimento della saldatura, sognata da Cavour, di integrazione reciproca, di inclusione bilaterale, sociale, civile, economica e spirituale a decidere la sofferenza e la estraneità meridionale, a segnare l’emarginazione dal mercato europeo e ad  alimentare una sorta di inimicizia, di repulsione, nelle relazioni interumane con i migranti dal Mezzogiorno. Anche nelle strutture pastorali e di servizio degli episcopati meridionali, per la spoliazione e la chiusura di istituti e di conventi, si svigorì l’opera di sostegno e di formazione e una parte del clero si chiuse nel rimpianto del potere perduto.
Gisondi, nei tanti percorsi della sua ricerca, apre una questione di grande rilievo quasi sempre omessa o oscurata dalla storiografia: nel divenire civile e politico è la presenza politica della “Massoneria”, con la capacità di penetrazione nel sistema di potere, con la insidia di una ideologia ambigua e pervasiva, con strategie differenziate dopo il 1908, di lotta contro il mondo cattolico o di infiltrazione in esso a seconda delle “logge” di appartenenza. Deve essere proseguita l’analisi delle dinamiche di potere che vengono dai vertici della Monarchia sabauda e si irradiano suii governi, le gerarchie militari, sulle rappresentanze parlamentari, nella costellazione delle famiglie dei possidenti e delle professioni emergenti. Il mondo politico sta dentro la globalità e la complessità della vicenda umana e si esprime in rapporto alle tendenze culturali, sociali e ideologiche, alle mentalità e sensibilità dei gruppi sociali, alla loro consistenza, ai saperi, ai poteri e agli averi della loro dotazione mentale, culturale e patrimoniale. E le tensioni dialettiche che si accendono nella comunicazione pubblica – la stampa e poi la radio e infine la televisione – per la raccolta e la gestione del consenso, si polarizzano, almeno fino agli anni sessanta del ‘900, sul terreno favorevole o critico nei confronti della concezione etico-religiosa del Cristianesimo vissuta nella prassi politica. Nella realtà del Sannio, la rappresentazione del confronto tra le due linee, quella liberal-massonica e quella popolare-cattolica, evidenti sia prima che dopo il fascismo, interpretate nei due tempi  dalla competizione di due opposte leadership di Raffaele De Caro e di Bosco Lucarelli, danno la misura di un confronto ormai decisivo. Infatti, nell’approfondire le ragioni e nel cogliere le radici di questo confronto-scontro nel Sannio, si riesce a individuare l’essenza politica e religiosa di una sfida mondiale, che oggi è la “resa dei conti” finale nella storia della Civiltà umana.
Nell’Ottocento è evidente la carica strategica della Massoneria sia nei movimenti rivoluzionari, sia nella direzione strategica della politica della Monarchia sabauda, sia nelle spinte ideologiche e culturali di un pensiero duramente anticlericale e profondamente anticattolico. Alla fine del secolo con la “Rerum novarum” di Leone XIII e con Don Sturzo si apre la stagione del popolarismo politico dei cattolici, interrotta dalla prima guerra mondiale e quindi dal fascismo, e che si concluderà tragicamente e torbidamente con l’uccisione di Aldo Moro, con la dissipazione  e la dispersione della rappresentanza di ispirazione cattolica, presente nella Democrazia Cristiana.

La narrazione storico-politica di Antonio Gisondi ci invita a un ripensamento della identità sannitica, romanizzata e cristianizzata dentro la crisi dell’intera Civiltà occidentale, della sua fondazione nella Verità, nella Libertà, nell’Amore. 
Credo e spero, che il nostro Autore assuma il compito e la responsabilità di completare l’indagine, così corposamente avviata, in un quadro storiografico che gli consenta di muoversi nell’integralità di tutto l’orizzonte umano-divino della vita con l’intelligenza dell’Amore, perché “la scienza storico-materialistica del divenire sociale”, da sola, non consente di gettare lo sguardo nelle profondità del pensiero e del cuore degli uomini, anzi ci espone al dominio dell’egoismo, della menzogna, della paura. 
Emanuele Kant prendeva in considerazione, all’indomani della Rivoluzione francese del 1789, ce lo ricorda Benedetto XVI nella “Spe salvi”, la possibilità che si verifichi la “fine perversa di tutte le cose”. La storiografia del “trionfalismo antropologico” su cui fondare  “il Regno della ragione e della libertà senza Dio” non ci salva.
Davide Nava

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